Don Luis affonda la mano nel giubbotto in pelle consumato come un cerino ed afferra la chiavetta Usb: “La traversata del Salar de Uyuni – taglia corto con tono solenne – merita Tchaikovsky”.
Forse è la musica del maestro a meritarsi la meraviglia di un volo radente nella maestosità del deserto salato. Attacca con la “Marcia slava”, dissolvendola con il botto di cannone dell’Ouverture 1812. La malinconia dell’oboe tramonta con la dolcezza degli archi; poi è la potenza degli ottoni a prendersi la scena mentre lo sguardo resta incollato all’infinito che scorre oltre il finestrino. Non lo si attraversa, il deserto di Uyuni; lo si cavalca. Come Butch Cassidy e Sundance Kid in cerca di avventure. E lo si respira, a fondo. Sapore di sale con quel gusto un po’ amaro che hanno le cose perdute.

Solo andando da soli, in silenzio, senza bagagli,
si può penetrare veramente nel cuore del deserto
(John Muir)
